Cinquant’anni fa i campi coltivati conservavano molte tracce di vita selvatica: nelle distese di grano
vivevano tanti fiori di campo, dal papavero al fiordaliso, e tanti animali: quaglie, starne, strillozzi,
allodole, così nei frutteti si trovavano i nidi di tanti uccelli come fringuelli, cardellini, verdoni, e, tra le
piante, le lepri vivevano tranquillamente. In più vi erano tante siepi ricche di fiori e di piante spontanee.
Ciclamini e primule, asparagi e biancospini, prugnoli e rose canine. E, nel folto, vivevano lucertole e bisce,
donnole e topiragno, farfalle e merli, averle e ricci, rospi e ramarri. Lungo i sentieri erbosi fiorivano le
margherite e le cicale cantavano sugli alberi di quercia che sorgevano in mezzo ai campi. Non era forse la
natura selvaggia dei boschi e delle macchie, ma ci si poteva davvero contentare. Oggi, per produrre di più e
guadagnare di più, la timida natura dei campi coltivati è stata quasi ovunque spazzata via: ruspe e
immensi aratri hanno estirpato le siepi e i filari di alberi, erbicidi potentissimi hanno eliminato tutti i fiori
di campo (che vengono considerati “malerbe”, “erbacce”, “erbe infestanti”); insetticidi velenosi han fatto
scomparire farfalle e uccellini, topiragno e lucertole, ricci e rospi. I coltivi sono diventati come campi da
pallone: verdissimi e monotoni senza più un fiore, un canto, un volo. E la campagna d’oggi non e più quel
luogo sereno e bello, ove la sera cantavano i grilli e brillavano le lucertole. È una macchina per produrre
derrate che di naturale ormai non ha più nulla.
Fulco Pratesi, da L’orsa